La Peste de Justinien. La pandémie en Europe huit siècles avant la Mort Noire

di Gabriele Scarparo
Nel 541, in un periodo già caratterizzato da turbolenti sconvolgimenti politici e sociali, in Europa arrivò la prima pandemia di peste bubbonica di cui si è a conoscenza. Nota col nome di Peste di Giustiniano, la malattia infettiva si sviluppò inizialmente in Africa, nella regione del Mar Rosso, per arrivare fino ad Alessandria d’Egitto. Da qui, attraverso le rotte marittime dell’epoca, il batterio conosciuto col nome di yersinia pestis si diffuse in tutto il Mediterraneo giungendo finanche a Costantinopoli, la città più fiorente dell’epoca. La maestosa capitale dell’Impero bizantino, al tempo sotto la guida di Giustiniano (da cui quest’ondata di peste prende il nome) fu messa in ginocchio.
Si trattò di un evento senza precedenti che causò paura, isteria e morte ovunque arrivasse. Si pensa che nel giro di pochi mesi milioni di persone persero la vita. A tal proposito però i pareri degli studiosi moderni sono contrastanti: c’è infatti chi afferma che fu annientata tra un quarto e metà della popolazione mediterranea ma c’è anche chi ridimensiona il numero delle vittime in qualche centinaio di migliaia.
Nonostante i dubbi sugli impatti demografici dell’epidemia, il tessuto sociale dell’epoca ne risultò sconvolto. Una delle testimonianze più importanti a tal proposito è quella di Paolo Diacono, monaco, scrittore e storico del XVIII secolo. Nella sua opera Historia Langobardorum egli descrive la situazione della penisola italiana al tempo della peste bubbonica.
All’epoca del governo di Narsete [generale bizantino], scoppiò una terribile pestilenza, particolarmente intensa nella provincia di Liguria. All’improvviso, sui muri delle case, sulle porte, su vasellame e stoviglie, sui vestiti comparivano certe macchie che più uno si sforzava di tirare via e più diventavano evidenti. A un anno di distanza da questo fenomeno, la gente cominciava a soffrire di ghiandole grosse pressappoco come una noce o un dattero, che si formavano all’inguine o nelle altre parti più delicate del corpo, e a cui seguivano un’insopportabile arsura e una febbre che portavano alla morte entro tre giorni. Se una persona riusciva a superare questo periodo, poteva nutrire qualche speranza di sopravvivere. Dappertutto c’erano solo dolore e lacrime. Poiché la gente era comunemente convinta che se fosse fuggita avrebbe evitato la morte, nelle case vuote di abitanti restavano solo i cani, e il gregge restava solo sui pascoli, non custodito da nessun pastore. Su villaggi e borghi, prima pieni di uomini, l’indomani, dopo che la gente se n’era fuggita, regnava un profondo silenzio. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori. I genitori, dimentichi del frutto delle loro viscere, abbandonavano i figli in preda alla febbre. Se l’antica pietà spingeva qualcuno a voler dare sepoltura al prossimo, poi, perendo di quel che compiva, era lui a rimanere senza sepoltura. E mentre si sforzava di recare agli altri le estreme onoranze, ne restava privo. Il mondo pareva ricondotto al silenzio di ere lontanissime: non un grido nelle campagne, non il fischio di un pastore, non un’aggressione di fiere contro le greggi, non un furto nei pollai. I frumenti, con il tempo del mietere ormai trascorso, aspettavano ancora intatti il mietitore. Le vigne, nell’inverno che già s’avvicinava, mostravano sui tralci senza foglie i grappoli lustri. Di notte e di giorno s’udiva suonare una tromba di battaglia, e da molti s’era udito uno strepito d’esercito. Non si vedeva orma di gente che viaggiasse né si compivano assassini: eppure i morti erano tanti che occhio umano non avrebbe potuto contarli. Gli antri dei pastori diventavano sepolture umane, e le case degli uomini rifugio di fiere. E queste sventure colpirono soltanto i Romani e soltanto l’Italia sino al confine degli Alemanni e dei Bavari.
Anche Gregorio di Tours, storico e vescovo gallo-romano vissuto all’epoca dei fatti, descrive i sintomi e le conseguenze della malattia: «Nasceva all’inguine o all’ascella una piaga simile a quella che produce il morso di un serpente, e il veleno agiva in tale maniera sui malati che il secondo o il terzo giorno morivano. Inoltre la forza del veleno toglieva alla gente i sensi. […] Siccome mancavano le bare e il legno, si mettevano insieme sottoterra 10 persone ed anche di più. Una domenica contammo nella sola basilica di Saint-Pierre [di Clermont-Ferrand] trecento corpi».
La piaga della peste, nonostante si diffuse in più regioni mediterranee, colpì duramente soprattutto la città di Costantinopoli. Nella capitale dell’Impero, che all’epoca contava una popolazione di mezzo milione di abitanti (per alcuni un milione di abitanti), la malattia si diffuse a macchia d’olio percorrendo implacabile ogni strada, spostandosi dalla costa verso l’entroterra. Così racconta lo storico bizantino Procopio di Cesarea, testimone diretto degli eventi: «[La malattia] non ha abbandonato un dato luogo fino a che non fosse giunta a contare un numero adeguato di morti, e in modo da corrispondere esattamente a tale numero ha colpito anticipatamente fra coloro che abitavano nei dintorni. E questo morbo ha iniziato sempre a diffondersi dal litorale e da là è andato verso l’interno». Sempre Procopio ci informa che al suo picco l’epidemia mieteva in città qualcosa come diecimila morti al giorno. Cataste di corpi senza vita si accumularono nelle le vie. Per tentare di “smaltire” l’incombente numero di cadaveri furono requisite tombe private e scavate fosse comuni ovunque fosse possibile.
L’aggravarsi della situazione causò il collasso dell’intero sistema bizantino: la crisi demografica infatti si accompagnò a quella economica, a quella agricola e a quella militare. Questo (fino ad allora) sconosciuto nemico pose fine anche al grande progetto politico di Giustiniano, noto col nome di Renovatio Imperii. Negli anni a ridosso e in concomitanza con l’esplosione della peste, l’imperatore stava tentando infatti di riconquistare i territori del disgregato Impero Romano d’Occidente caduti in mano ai “barbari”. Nonostante le vittorie in nord Africa contro i Vandali e nella penisola italiana contro i Goti, i bizantini non riuscirono però a consolidare il proprio potere in queste regioni, anche e soprattutto a causa della crisi epidemica. Il sogno di riunire gli antichi possedimenti di Roma sotto l’impero della Nuova Roma si frantumò per sempre.
Nella capitale bizantina la malattia imperversò per diversi anni, almeno fino al 545 quando, in un provvedimento ufficiale, Giustiniano dichiarò passato il pericolo.
Nonostante ciò il flagello della peste si ripresentò ciclicamente nei paesi del Mediterraneo (ogni 12-15 anni circa) sebbene in ondate meno infettive e mortali. Almeno fino alla metà del secolo VIII la malattia non potè dirsi del tutto sconfitta.
Tuttavia alcuni secoli dopo, nel Trecento, la peste bubbonica si tornò in maniera ancora più drammatica. Una seconda pandemia infatti giunse in Europa e in Nord Africa, dopo aver flagellato l’Asia. Verosimilmente in questo caso la Peste Nera o Morte Nera, come venne battezzata già al tempo, causò in pochi anni la morte di 20 milioni di persone.
Studi recenti, attraverso il carotaggio dei ghiacci antartici, hanno dimostrato come il periodo in cui si diffuse la Peste di Giustiniano risulti caratterizzato da una netta riduzione dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, dovuta forse al collasso demografico e alla riduzione del bestiame. Altri studi hanno però svelato qualcosa di più: il decennio precedente l’epidemia appare come il più freddo degli ultimi 2000 anni, probabilmente a causa di due grandi eruzioni vulcaniche che sconvolsero il clima globale. Cassiodoro, politico e storico vissuto ai tempi del regno romano-barbarico di Teodorico il Grande, ne dà testimonianza in una lettera risalente al 533-534: il sole è qui descritto come offuscato, schermato da un velo opaco, freddo. Eventi molto diversi, insomma, (ma ugualmente rivoluzionari a loro modo) fecero da cesura tra la fine dell’epoca antica e l’inizio di quella medievale.
La Peste de Justinien. La pandémie en Europe huit siècles avant la Mort Noire
En 541, dans une période déjà caractérisée par des bouleversements politiques et sociaux, la première pandémie de peste connue arriva en Europe. Connue sous le nom de Peste de Justinien, cette maladie infectieuse développa d’abord en Afrique, dans la région de la mer Rouge, et atteignit Alexandrie en Égypte. De là, par les routes maritimes de l’époque, la bactérie connue sous le nom de yersinia pestis se répandit dans toute la Méditerranée, atteignant même Constantinople, la ville la plus florissante de l’époque. La majestueuse capitale de l’Empire byzantin, à l’époque sous la direction de Justinien (d’où cette vague de peste tire son nom) fut mise à genoux.
Ce fut un événement sans précédent qui provoqua la peur, l’hystérie et la mort partout où il se produisit. On pense qu’en quelques mois, des millions de personnes perdirent la vie. À cet égard, cependant, les opinions des spécialistes modernes sont contradictoires : il y a ceux qui disent qu’elle a anéantit entre un quart et la moitié de la population méditerranéenne, mais il y a aussi ceux qui réduisent le nombre de victimes à quelques centaines de milliers.
Malgré les doutes sur l’impact démographique de l’épidémie, le tissu social de l’époque fut perturbé. L’un des témoignages les plus importants à cet égard est celui de Paolo Diacono, moine, écrivain et historien du XVIIIe siècle. Dans son ouvrage Historia Langobardorum, il décrit la situation de la péninsule italienne à l’époque de la peste bubonique.
A l’époque du gouvernement de Narsete [général byzantin], un terrible fléau a éclaté, particulièrement intense dans la province de Ligurie. Soudain, sur les murs des maisons, sur les portes, sur la poterie et la vaisselle, sur les vêtements, apparurent certaines taches que plus on essayait d’enlever, plus elles devenaient évidentes. Un an après ce phénomène, les gens ont commencé à souffrir de glandes de la taille d’une noix ou d’une datte, qui se sont formées dans l’aine ou dans d’autres parties plus délicates du corps, suivies d’une brûlure insupportable et d’une fièvre qui a entraîné la mort en trois jours. Si une personne pouvait traverser cette période, elle pourrait avoir un certain espoir de survivre. Partout, il n’y avait que des douleurs et des larmes. Parce que les gens croyaient généralement que s’ils s’échappaient, ils éviteraient la mort, seuls les chiens restaient dans les maisons vides, et le troupeau était laissé seul dans les pâturages, non gardé par un quelconque berger. Le lendemain, après la fuite des habitants, un profond silence régnait sur les villages et hameaux, auparavant pleins d’hommes. Les enfants ont fui, laissant les cadavres de leurs parents inséparables. Les parents, oubliant le fruit de leurs entrailles, abandonnent leurs enfants dans la fièvre. Si l’ancienne pitié a poussé quelqu’un à vouloir donner l’enterrement à son voisin, alors, perdant ce qu’il a fait, c’est lui qui est resté sans enterrement. Et alors qu’il s’efforçait d’apporter aux autres les honneurs extrêmes, il en a été privé. Le monde semblait ramené au silence des temps lointains : pas un cri dans la campagne, pas le sifflement d’un berger, pas une agression des bêtes contre les troupeaux, pas un vol dans les poulaillers. Les blés, le temps de la récolte étant maintenant passé, attendaient toujours intacts le faucheur. Les vignes, à l’approche de l’hiver, montraient sur les pousses sans feuilles les grappes de raisin brillantes. De nuit comme de jour, on entendait une trompette de combat, et beaucoup avaient entendu la clameur d’une armée. Personne ne pouvait voir les empreintes des gens qui voyageaient, et il n’y avait pas non plus de meurtriers : pourtant, il y avait tant de morts que l’œil humain n’aurait pas pu les compter. Les tanières des bergers devenaient des sépultures humaines, et les maisons des hommes étaient le refuge des bêtes. Et ces malheurs n’ont frappé que les Romains et seulement l’Italie jusqu’aux frontières des Alamans et des Bavares.
Grégoire de Tours, historien et évêque gallo-romain qui vivait à l’époque des événements, décrit également les symptômes et les conséquences de la maladie : « Une peste semblable à celle produite par une morsure de serpent est née dans l’aine ou l’aisselle, et le poison a agi de cette manière sur les malades qui sont morts le deuxième ou le troisième jour. De plus, la force du poison a privé les gens de leurs sens. […] Comme les cercueils et le bois ont disparu, 10 personnes ont été rassemblées sous terre et même plus. Un dimanche, nous avons compté trois cents corps dans la seule basilique Saint-Pierre [à Clermont-Ferrand] ».
La peste, bien qu’elle se soit étendue à plusieurs régions méditerranéennes, frappa la ville de Constantinople durement. Dans la capitale de l’Empire, qui comptait alors un demi-million d’habitants (selon certains environ un million d’habitants), la maladie se répandit comme une traînée de poudre le long de toutes les routes, se déplaçant de la côte vers l’arrière-pays. C’est ce qu’affirme l’historien byzantin Procopius de Césarée, témoin direct des événements : « [La maladie] ne quittait pas un endroit donné avant d’avoir atteint un nombre adéquat de décès, et pour correspondre exactement à ce nombre, elle frappait de bonne heure parmi ceux qui vivaient dans les environs. Et cette maladie commençait toujours à se propager à partir de la côte et de là, elle se rendait à l’intérieur des terres ». Procopius nous informe également qu’à son apogée, l’épidémie faisait dix mille morts par jour dans la ville. Des piles de corps sans vie s’accumulèrent dans les rues. Pour tenter de “se débarrasser” du nombre imminent de cadavres, des tombes privées furent réquisitionnées et des fosses communes creusées partout où cela était possible.
L’aggravation de la situation provoqua l’effondrement de tout le système byzantin : à la crise démographique suivirent des crises économiques, agricoles et militaires. Cet ennemi (jusqu’alors) inconnu mit fin également au grand projet politique de Justinien, connu sous le nom de Renovatio Imperii. Dans les années proches et concomitantes à l’apparition de la peste, l’Empereur tenta en effet de reconquérir les territoires de l’Empire romain d’Occident désagrégé qui étaient tombés aux mains des “barbares”. Malgré les victoires en Afrique du Nord contre les Vandales et dans la péninsule italienne contre les Goths, les Byzantins ne réussirent pas à consolider leur pouvoir dans ces régions, également et surtout à cause de la crise épidémique. Le rêve de réunir les anciennes possessions de Rome sous l’empire de la Nouvelle Rome se brisa à jamais.
Dans la capitale byzantine, la maladie frappa pendant plusieurs années, au moins jusqu’en 545, lorsque, dans une mesure officielle, Justinian déclara que le danger était passé.
Malgré tout, le fléau de la peste réapparues de manière cyclique dans les pays méditerranéens (environ tous les 12 à 15 ans), bien que par vagues moins infectieuses et moins meurtrières. Au moins jusqu’au milieu du VIIIe siècle, la maladie ne fut pas complètement vaincue.
Cependant au XIVe siècle la peste bubonique revint de façon encore plus dramatique. Une deuxième pandémie arriva en Europe et en Afrique du Nord, après avoir frappé l’Asie. Dans ce cas, la Peste Noire ou Mort Noire, comme elle fut baptisée à l’époque, causa la mort de 20 millions de personnes en quelques années.
Des études récentes, grâce au carottage de la glace de l’Antarctique, ont montré que la période au cours de laquelle la peste de Justinien se répandues fut caractérisée par une nette réduction des niveaux de dioxyde de carbone dans l’atmosphère, peut-être due à l’effondrement démographique et à la réduction du cheptel. Cependant, d’autres études ont révélé quelque chose de plus : la décennie précédant l’épidémie semble être la plus froide des 2000 dernières années, probablement en raison de deux éruptions volcaniques qui ont perturbé le climat mondial. Cassiodore, homme politique et historien qui a vécu à l’époque du règne romain-barbare de Théodoric le Grand, en témoigne dans une lettre datant de 533-534 : le soleil est ici décrit comme nuageux, protégé par un voile opaque et froid. Des événements très différents, en somme, (mais tout aussi révolutionnaires à leur manière) font césure entre la fin de l’époque antique et le début de l’époque médiévale.
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