Le “mauvais Italien”. Le front yougoslave et la Circulaire 3 C

di Gabriele Scarparo
Con l’inizio dell’Operazione Castigo del 6 aprile 1941 le truppe dell’Asse diedero il via all’occupazione della Jugoslavia. Grazie soprattutto alla schiacciante superiorità dell’apparato bellico tedesco e con un minimo contributo delle forze armate italiane, dopo sole due settimane gli scontri terminarono con una netta vittoria per i nazifascisti. Nei giorni successivi i tedeschi intervennero anche in Grecia, dove l’alleato italiano si era ritrovato in gravi difficoltà.
L’inarrestabile marcia della Wehrmacht portò già prima dell’estate al crollo dell’intera regione balcanica che venne riorganizzata mediante annessioni dirette e l’istituzione di governi collaborazionisti, come quello degli ustascia croati di Ante Pavelić. Il Duce, che da anni mirava a fare dell’Adriatico un «lago italiano», ottenne parte della Slovenia e buona parte della costa dalmata, tra cui anche l’importante città di Spalato.
In tutti questi territori, come già era accaduto in Istria anni prima, vennero avviate epurazioni politiche e amministrative. Si assistette inoltre a brutali tentativi di rimozione del passato slavo coincidenti con l’italianizzazione dei toponimi di città e piazze, con la distruzione di monumenti e con il trapianto forzato delle leggi e delle istituzioni dello stato fascista.
Tali operazioni, come rilevato da Davide Rodogno ne Il Nuovo ordine mediterraneo, avrebbero dovuto condurre ad una vera e propria colonizzazione italiana di queste terre, progetto sventato però dall’effimera durata della dominazione. Dopo l’attacco nazifascista all’Urss infatti, anche in questi territori cominciò una lunga ribellione popolare condotta dai filocomunisti dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, guidati dal segretario del Partito Comunista Jugoslavo, Josip Broz Tito.
Per contrastare le ribellioni i comandi italiani non si fecero scrupoli nell’usare brutali metodi repressivi quali fucilazioni sommarie, incendi di villaggi e deportazioni in campi di concentramento. Il “buono italiano” in questi territori non fece la sua comparsa neppure nella propaganda fascista; anzi secondo le disposizioni di Mussolini era necessario mostrare a quelle popolazioni «inferiori» il lato più duro dell’animo italiano.
«La favola del bono italiano deve cessare!», scrive ad esempio Pirzio Biroli [governatore del Regno del Montenegro], «il soldato italiano è soprattutto un guerriero. Chi non ha voluto comprendere la generosità della mano amica, senta ora il peso del nostro pugno». Le sue parole paiono riecheggiare analoghe affermazioni mussoliniane: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta». (Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia)
In Jugoslavia l’esercito di occupazione italiano diede il peggio di sé. Il regime fascista fu direttamente responsabile della distruzione di centinaia di centri abitati, di soprusi e dell’uccisione di migliaia di civili. Per contrastare il movimento partigiano di Tito fu dato il via ad una vera e propria «politica del terrore» per niente distante da quella messa in atto dai nazisti in Italia dopo l’8 settembre.
Simbolo di questo scempio fu il generale Mario Roatta che nel gennaio del 1942 assunse il commando della 2a Armata con il motto «testa per dente». In sintonia con lui agirono anche i generali Gastone Gambara e Mario Robotti, che rimproverò i suoi ufficiali perché troppo teneri contro i partigiani. Tutti e tre entrarono al termine della guerra nella lista di criminali italiani stilata dalla Jugoslavia; tutti e tre non furono puniti per i loro crimini.
Eppure l’Italia fascista fu promotrice in quelle terre di un’atmosfera carica di violenza e odio. In questo clima maturò anche l’emanazione della Circolare 3 C del 1° marzo del 1942 (aggiornata e sostituita poi da quella del 1° dicembre successivo), contenente le disposizioni fondamentali per la difesa dell’ordine pubblico nei territori di Slovenia e Dalmazia, all’epoca occupati dalla 2a Armata in Jugoslavia. In questa circolare viene esplicitamente accolto il principio secondo cui la popolazione residente in un’area con sospetta presenza di partigiani sia considerata corresponsabile di ogni attacco o sabotaggio di questi ultimi.
Nella Parte Seconda della Circolare 3 C, al capitolo II “Misure precauzionali nei confronti della popolazione“, si legge:
Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’O. P. e delle operazioni, i comandi di G. U. possono provvedere:
a) ad internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, individui, famiglie, categorie di individui della città e campagna, e – se occorre – intere popolazioni di villaggi e zone rurali;
b) a « fermare» ostaggi, tratti ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione, e – se giudicato opportuno – anche dal suo complesso, compresi i ceti più elevati;
c) a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti.
Gli ostaggi di cui in b) possono essere chiamati a rispondere, con la loro vita, di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani, nelle località da cui sono tratti, nel caso che non vengano identificati – entro ragionevole lasso di tempo, volta a volta fissato – i colpevoli.
Gli abitanti di cui in c ), qualora non siano identificati – come detto sopra – i sabotatori, possono essere internati a titolo repressivo; in questo caso il loro bestiame viene confiscato e le loro case vengono distrutte.
In sostanza venne a cadere la distinzione fra partigiani e civili. Per annientare i primi non si esitò a colpire i secondi e a fare terra bruciata intorno ad essi. Queste disposizioni portano alla mente la direttiva Merkblatt 69/1, seguita dai tedeschi nella lotta contro le «bande» dell’est Europa e poi anche in Italia. I civili che loro malgrado si trovarono lungo la linea degli scontri pagarono il prezzo più alto. Gli incendi e le distruzioni di case e villaggi per rappresaglia prescritti dalle norme di controguerriglia vennero eseguite con impressionante frequenza e solerzia.
Il popolo e l’esercito italiano, come qualunque gruppo umano, comprendono anche ladri, stupratori, sadici, assassini e violenti di ogni tipo. L’eccesso di potere e il clima di impunità diffusa consentono a questi pochi individui di agire indisturbati e spingono molti altri ad adottare comportamenti contrari alle convenzioni sociali. I militari italiani sono intoccabili, autorizzati a qualunque abuso, addirittura rimbrottati quando non fucilano abbastanza: «Si ammazza troppo poco!», commenta Robotti in un’occasione. «Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti», ricorda esplicitamente la circolare 3c: «Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia». E i giornali di propaganda per le truppe sono ancora più schietti: «Non sono “nemici”; sono fuori legge. Non hanno il diritto di essere chiamati uomini. Ucciderli senza pietà!». (Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia)
Migliaia di persone furono deportate in campi di concentramento costruiti in diverse località, tra cui Gonars e Visco in provincia di Udine o Santa Lucia d’Isonzo e Sdraussina nei pressi di Gorizia. D’altronde l’Esercito italiano aveva alle spalle una certa esperienza nella realizzazione dei campi d’internamento per prigionieri, basti pensare a quelli realizzati in Libia dal generale Graziani. Il fenomeno concentrazionario italiano nei territori slavi si pose in perfetta continuità con quanto era già accaduto in Africa. Queste misure repressive, unite anche all’utilizzo di truppe ausiliari appartenenti a diversi gruppi etnici, favorirono uno scenario che non si discostava molto da quello di una “guerra coloniale”.
In tutto, nei soli campi di concentramento italiani per jugoslavi, si calcola che persero la vita circa 4 mila persone. A queste vanno poi sommate anche le altre migliaia di vittime, tra civili e partigiani, causate dalle singole e intense offensive militari. Queste non ottennero risultati duraturi sul piano del contenimento della guerriglia partigiana ma contribuirono, invece, ad alimentare l’appoggio popolare al movimento di liberazione e ad accrescere il risentimento antitaliano che sfociò poi nel triste e aberrante fenomeno delle Foibe. Tra queste azioni ricordiamo l’eccidio di decine di abitanti nei piccoli villaggi presso Prem, nella zona di Villa del Nevoso (Bisterza) ai primi di giugno del 1942 e la fucilazione per rappresaglia, nel luglio del 1942, di un centinaio di abitanti del villaggio croato di Podhum, presso Fiume, per odine del prefetto Temistocle Testa.
Al termine della guerra il governo di Belgrado stilò una lista di quasi 800 presunti criminali italiani, tra cui anche i generali Roatta, Robotti e Gambara. L’Italia però rifiutò continuamente la consegna dei propri criminali. Roma contestò le garanzie di imparzialità offerte dai tribunali jugoslavi, facendo presente anche che la consegna di cittadini italiani a Belgrado avrebbe scatenato gravi reazioni nell’opinione pubblica esacerbata per i crimini contro gli italiani commessi dagli jugoslavi nelle zone di confine. Quand’anche nei pochi casi in cui essi finirono sotto processo, Roma non applicò condanne esemplari, nonostante le proteste, seppur sempre meno accese, della Sinistra.
Indicativa fu la vicenda del generale Mario Roatta, arrestato sulla base di un mandato di cattura dell’Alto commissariato con riferimento al suo ruolo di capo del Servizio Informazione Militare (SIM) dal 1934 al 1939: mentre i comunisti chiesero che Roatta fosse processato anche per i metodi usati nella repressione del movimento partigiano in Jugoslavia, le forze moderate si indignarono per una richiesta che avrebbe potuto compromettere «l’onore nazionale» e intaccare il «senso umanitario» dei generali italiani. Perseguire giudiziariamente Roatta e altri responsabili della disfatta avrebbe significato giudicare un’intera classe dirigente proprio nel momento in cui si sarebbe voluta ristabilire in fretta la normalità. Roatta riuscì a fuggire in Spagna con la complicità del SIM per fare ritorno in Italia da uomo libero a metà degli anni Sessanta. Si trattò di un’altra vittoria per il sistema di impunità creato dalle istituzioni italiane nei confronti dei suoi presunti criminali, ma rappresentò anche l’ennesima sconfitta per la coscienza nazionale di un popolo che troppo in fretta ha cancellato e dimenticato i suoi “errori”.
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Le “mauvais Italien”. Le front yougoslave et la Circulaire 3 C
Avec le début de l’Opération Castigo le 6 avril 1941, les troupes de l’Axe ont commencèrent l’occupation de la Yougoslavie. Grâce surtout à la supériorité écrasante de l’appareil de guerre allemand et avec une contribution minimale des forces armées italiennes, les combats s’achevèrent après seulement deux semaines par une victoire nette des nazi-fascistes. Les jours suivants, les Allemands intervinrent également en Grèce, où l’allié italien se trouvait en sérieuses difficultés.
La marche imparable de la Wehrmacht conduisit déjà avant l’été à l’effondrement de toute la région des Balkans, qui fut réorganisée par des annexions directes et la mise en place de gouvernements collaborationnistes, comme celui des Ustashas croates d’Ante Pavelić. Le Duce, qui depuis des années avait pour objectif de faire de l’Adriatique un “lac italien“, obtint une partie de la Slovénie et une bonne partie de la côte dalmate, dont l’importante ville de Split.
Dans tous ces territoires, comme cela s’était déjà produit en Istrie des années auparavant, furent engagées des purges politiques et administratives. Il y eut également des tentatives brutales d’effacer le passé slave, coïncidant avec l’italianisation des noms de lieux des villes et des places, avec la destruction de monuments et avec la transplantation forcée des lois et des institutions de l’État fasciste.
Ces opérations, comme le souligne Davide Rodogno dans Il Nuovo ordine mediterraneo (Le Nouvel Ordre Méditerranéen), auraient dû conduire à une véritable colonisation italienne de ces terres, un projet déjoué cependant par la courte durée de la domination. En fait, après l’attaque nazi-fasciste sur l’URSS, une longue rébellion populaire commença dans ces territoires, menée par les pro-communistes de l’Armée populaire de libération de la Yougoslavie, dirigée par le secrétaire du Parti communiste yougoslave, Josip Broz Tito.
Afin de combattre les rébellions, les commandements italiens n’eurent aucun scrupule à utiliser des méthodes répressives brutales telles que les tirs sommaires, l’incendie des villages et les déportations vers les camps de concentration. Le “bon Italien“ dans ces territoires ne fit pas son apparition même dans la propagande fasciste; au contraire selon les dispositions de Mussolini il fallait montrer à ces populations “inférieures” le côté le plus dur de l’âme italienne.
« La fable du bon italien doit cesser », écrit par exemple Pirzio Biroli [Gouverneur du Royaume du Monténégro], « le soldat italien est avant tout un guerrier. Celui qui n’a pas voulu comprendre la générosité de la main amicale, sentira maintenant le poids de notre poing ». Ses paroles semblent faire écho à des déclarations similaires de Mussolini : « Il faut mettre fin à ce lieu commun qui dépeint les Italiens comme des sentimentaux et incapables d’être durs quand il le faut. Cette tradition de grâce et de tendresse excessive doit être interrompue ». (Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia)
En Yougoslavie, l’armée d’occupation italienne montra son pire visage. Le régime fasciste fut directement responsable de la destruction de centaines de colonies, de l’abus de pouvoir et du meurtre de milliers de civils. Afin de s’opposer au mouvement partisan de Tito, une véritable “politique de terreur” fut lancée, similaire à celle mise en œuvre par les nazis en Italie après le 8 septembre.
Le symbole de ce massacre fut le général Mario Roatta qui, en janvier 1942, prit le commandement de la 2ème Armée avec la devise “tête pour une dent”. A ses côtés, les généraux Gastone Gambara et Mario Robotti, qui réprimandèrent ses officiers d’être trop doux avec les partisans. À la fin de la guerre, tous les trois entrèrent dans la liste des criminels italiens établie par la Yougoslavie ; tous les trois ne furent pas punis pour leurs crimes.
Pourtant, l’Italie fasciste favorisa un climat de violence et de haine dans ces pays. C’est dans ce contexte que fut publiée la Circulaire 3 C du 1er mars 1942 (mise à jour et remplacée par celle du 1er décembre suivant), contenant les dispositions de base pour la défense de l’ordre public dans les territoires de Slovénie et de Dalmatie, alors occupés par la 2ème Armée en Yougoslavie. Cette circulaire acceptait explicitement le principe selon lequel la population, vivant dans une zone où la présence de partisans est suspectée, doit être considérée comme coresponsable de toute attaque ou sabotage de ces derniers.
La deuxième partie de la circulaire 3 C, au chapitre II “Mesures de précaution à l’égard du public“, précise:
Lorsque cela est nécessaire pour le maintien de l’O. P. et des opérations, les commandements de l’U. G. peuvent :
a) interner, à titre de mesure de protection, de précaution ou de répression, des individus, des familles, des catégories d’individus de la ville et de la campagne, et – si nécessaire – des populations entières de villages et de zones rurales ;
b) “arrêter” des otages, pris ordinairement dans la partie suspecte de la population, et – si cela est jugé opportun – également dans l’ensemble de celle-ci, y compris les classes supérieures ;
c) considérer comme coresponsables du sabotage, en général, les habitants des maisons proches du lieu où il est effectué.
Les otages mentionnés au point b) peuvent être appelés à répondre, avec leur vie, d’attaques prodigieuses contre des soldats et des fonctionnaires italiens, dans les lieux d’où ils sont emmenés, dans le cas où les coupables ne sont pas identifiés – dans un délai raisonnable, fixé de temps en temps -.
Les habitants mentionnés au point c), si les saboteurs ne sont pas identifiés – comme mentionné ci-dessus – peuvent être internés à titre de mesure répressive ; dans ce cas, leur bétail est confisqué et leurs maisons sont détruites.
En substance, la distinction entre partisans et civils fut annulée. Pour anéantir les premiers, ils frappèrent les seconds et firent de la terre brûlée autour d’eux. Ces dispositions rappellent la directive Merkblatt 69/1, suivies par les Allemands dans la lutte contre les “bandes terroristes” en Europe de l’Est, puis en Italie. Les civils qui, malgré eux, se retrouvèrent sur la ligne de bataille payèrent le prix le plus élevé. Les incendies de représailles et les destructions de maisons et de villages prescrits par les règles de la contre-guérilla furent effectués avec une fréquence et une diligence impressionnantes.
Le peuple et l’armée italiens, comme tout groupe humain, comprennent également des voleurs, des violeurs, des sadiques, des meurtriers et des personnes violentes de toutes sortes. L’excès de pouvoir et le climat d’impunité généralisé permettent à ces quelques individus d’agir sans être inquiétés et poussent beaucoup d’autres à adopter des comportements contraires aux conventions sociales. Les militaires italiens sont intouchables, autorisés à commettre tout abus, même réprimandés lorsqu’ils ne tirent pas assez : « Ils tuent trop peu ! », a commenté Robotti à une occasion. « Il faut savoir que les excès de réaction, effectués de bonne foi, ne seront jamais poursuivis », rappelle explicitement la Circulaire 3 C : « Au contraire, ceux qui font preuve de timidité et de paresse seront poursuivis inexorablement ». Et les papiers de propagande pour les troupes sont encore plus crus : « Ils ne sont pas des ‘ennemis’, ils sont en dehors de la loi. Ils n’ont pas le droit d’être appelés des hommes. Tuez-les sans pitié ! ». (Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia)
Des milliers de personnes furent déportées dans des camps de concentration construits en divers endroits, notamment à Gonars et Visco dans la province d’Udine ou à Santa Lucia d’Isonzo et Sdraussina près de Gorizia. D’autre part, l’armée italienne avait une certaine expérience dans la construction de camps d’internement pour prisonniers, il suffit de penser à ceux construits en Libye par le général Graziani. La concentration italienne dans les territoires slaves était en parfaite continuité avec ce qui s’était déjà passé en Afrique. Ces mesures répressives, ainsi que l’utilisation de troupes auxiliaires appartenant à différents groupes ethniques, favorisèrent un scénario qui ne diffère pas beaucoup de celui d’une “guerre coloniale”.
Au total, dans les seuls camps de concentration italiens pour les Yougoslaves, on estime qu’environ 4 000 personnes perdirent la vie. À cela s’ajoutent les milliers d’autres victimes, tant civiles que partisanes, causées par des offensives militaires uniques et intenses. Ces offensives n’obtinrent pas de résultats durables en termes d’endiguement de la guérilla partisane, mais contribuèrent plutôt à nourrir le soutien populaire au mouvement de libération et à accroître le ressentiment anti-italien qui conduisit ensuite au triste et aberrant phénomène du Foibe. Parmi ces actions, on peut citer le massacre de dizaines d’habitants des petits villages près de Prem, dans la région de Villa del Nevoso (Bisterza) au début du mois de juin 1942 et le tir de représailles, en juillet 1942, d’une centaine d’habitants du village croate de Podhum, près de Fiume, sur ordre du préfet Temistocle Testa.
À la fin de la guerre, le gouvernement de Belgrade produisit une liste de près de 800 criminels italiens présumés, dont les généraux Roatta, Robotti et Gambara. L’Italie, cependant, refusa continuellement de livrer ses criminels. Rome contesta les garanties d’impartialité offertes par les tribunaux yougoslaves, soulignant également que la remise de citoyens italiens à Belgrade aurait déclenché de graves réactions dans l’opinion publique, exacerbées par les crimes contre les Italiens commis par les Yougoslaves dans les zones frontalières. Même dans les rares cas où ils furent jugés, Rome n’appliqua pas de peines exemplaires, malgré les protestations, de moins en moins vives, de la gauche.
Révélateur fut le cas du général Mario Roatta, arrêté sur la base d’un mandat d’arrêt délivré par le Haut Commissariat en référence à son rôle de chef du Service de renseignement militaire (SIM) de 1934 à 1939 : alors que les communistes exigeaient que Roatta devait être également jugé pour les méthodes utilisées dans la répression du mouvement partisan en Yougoslavie, les forces modérées s’indignèrent d’une demande qui aurait pu compromettre “l’honneur national” et affecter le “sens humanitaire” des généraux italiens. Poursuivre judiciairement Roatta et les autres responsables de la débâcle aurait signifié juger toute une classe dirigeante au moment même où elle voulait rapidement rétablir la normalité. Roatta réussit à s’échapper en Espagne avec la complicité du SIM pour retourner en Italie en homme libre au milieu des années soixante. Ce fut une nouvelle victoire pour le système d’impunité créé par les institutions italiennes pour ses présumés criminels, mais cela représenta aussi la énième défaite pour la conscience nationale d’un peuple qui a trop vite effacé et oublié ses “erreurs”.
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